in Iraq è caccia ai cristiani
l’isis fa terra bruciata
di Cristina Scanu e Giuseppe Ciulla
in “il Fatto Quotidiano” del 8 agosto 2014
L’uomo chiede un pezzo di carta e una penna. Fissa sul foglio bianco Mosul. Poi a ventaglio scrive i nomi dei villaggi e un numero accanto. Qaraqosh 200, Bartella 44, Alqosh 70, Tall kayf 46. In pochi minuti disegna la mappa della fuga. Le famiglie cristiane cacciate dall’Isis dalla capitale dell’autoproclamato Stato Islamico hanno raggiunto i paesi vicini a piedi. Quelle che invece avevano soldi a sufficienza per pagare un taxi o una macchina con cui fuggire sono arrivate fino a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, 65 chilometri da Mosul. E si sono rifugiate a Ankawa, il quartiere a maggioranza cristiana. Hanno chiesto ospitalità a parenti e conoscenti. E se non avevano nessuno hanno bussato alle porte delle chiese. L’uomo della mappa è uno che conta nel governo del Kurdistan iracheno. Si chiama Paulos Shimaoun ma per tutti è Abuban ed è una figura centrale della comunità caldea, i cristiani che c’erano prima degli altri a Mosul, Bagdad, Kirkuk. “Gli sfollati un mese fa dormivano ovunque – dice – nelle chiese, nelle famiglie, nelle scuole. Li vedevi vagare per Ankawa coi loro furgoni pieni di roba. Adesso chi aveva dei soldi ha preso una casa in affitto, gli altri sono ancora accampati da amici o parenti”. È molto difficile fare una stima dell’esodo perché nessuno nell’emergenza ha fatto un censimento e perché questa è solo l’ultima ondata di una fuga iniziata ben prima del 10 giugno, il giorno della presa della città.
Il terrore arriva da lontano. Lo conferma un cristiano che a Mosul faceva il poliziotto. Si chiama Ghanim e anche lui è fuggito con la sua famiglia, moglie, fratello e cinque bambini. “Era la fine del 2012 e avevo scoperto che i miliziani dell’Isis avevano mandato quattro uomini imbottiti di esplosivo per distruggere la chiesa di Marafram. Siamo riusciti ad arrivare in tempo e ne abbiamo arrestati tre. Uno invece è riuscito a fuggire. Da quando Daesh (termine arabo per indicare Isis, ndr) è arrivato, è diventato impossibile per noi vivere. I cristiani in Iraq non possono più starci. È un paese senza speranza. In un’altra circostanza ho assistito a una vera e propria esecuzione. Hanno ucciso un cristiano davanti ai miei occhi. Dopo hanno acceso un rogo e hanno bruciato il cadavere”. Da due settimane Ghanim vive accampato con la famiglia nella sede del partito comunista iracheno ad Ankawa. Con loro c’è anche una ragazza: Diana, di 18 anni, sfollata da Qaraqosh insieme con i suoi sei fratelli più piccoli. La madre è morta qualche mese fa. Il padre guadagna pochi dinari facendo il tassista. Lei non sorride mai. Vive col rimpianto di non essere riuscita, nella fretta della fuga, a portar via neanche una foto di sua madre.
I loro racconti si somigliano tutti. “Quando i miliziani hanno bombardato la città, abbiamo preso soldi e qualche vestito e siamo scappati”. Rispetto a tanti altri cristiani Diana è stata più fortunata, è riuscita a conservare il crocifisso d’oro. Per mostrarcelo scava dentro un sacco nero con dentro la biancheria pulita. Estrae dal fondo un pacchettino, lo apre, e tira fuori la sua catenina. Quell’oggetto nascosto come il pane in tempo di guerra, dà la misura della paura di perdere ogni cosa: quei pochi grammi d’oro, e la croce, simbolo di una minoranza che si sente dimenticata. “Vorrei restare a vivere qui ma i cristiani d’Europa devono aiutarci”. Lo ripetono tutti. Evocano l’Europa, i loro “fratelli nella croce” e Papa Francesco. I racconti della fuga sono laceranti. “Mentre Daesh bombardava la città sono salito all’ultimo piano della mia casa, ho pianto e pregato Dio perché salvasse la mia famiglia – dice Ghanim – Il giorno dopo siamo partiti. Siamo passati davanti alla chiesa, l’abbiamo guardata per l’ultima volta e tutta la famiglia è scoppiata in lacrime”. Qaraqosh, 50mila abitanti, quasi tutti cristiani è il simbolo di questo dramma. Mosul è a 27 chilometri ma la linea del fronte è a poche centinaia di metri. Da lì l’Isis ha bersagliato le case dei cristiani.
Quasi la metà degli abitanti è fuggita, solo in pochi sono tornati a casa, temono altre rappresaglie. Vedi le sventagliate delle mitragliatrici sulle porte e sui muri. Le famiglie rimaste sono le più povere, oppure quelle che da Mosul si erano spostate e non hanno soldi per andare altrove. Un uomo con una lunga tunica grigia e un rosario tra le mani vive con altri sfollati in una schiera di case ancora in costruzione: “Al check point i miliziani di Daesh ci hanno portato via tutto: gli abbiamo lasciato l’auto, l’oro, e 700mila dinari”. La casa è vuota, per terra ci sono solo dei materassi. “Dove sono i vostri vestiti?” – chiediamo. “Hanno preso anche quelli”.