«Contro il naufragio delle coscienze è ora di cambiare la Bossi-Fini»
«I morti di Lampedusa sono figli del naufragio delle coscienze», tuona don Luigi Ciotti. Il salone della Fabbrica delle «E», in corso Trapani, è gremito, seicento persone almeno, ma l’ eco delle parole del fondatore del Gruppo Abele rimbomba per alcuni minuti. «Perché un prete fa questo?», si chiede retoricamente. «Questo» sta per la manifestazione di sabato a Roma «Costituzione, la via maestra», l’ inizio di un percorso più che un evento. «Perché – spiega Ciotti – come cittadino italiano non credo alla cittadinanza a intermittenza. Ci si accorge sempre troppo tardi dei drammi. Solo dopo che corpi esanimi vengono deposti su una spiaggia. La memoria è corta in questo Paese ed è in atto un furto di parole. Tutti parlano di giustizia, legalità e dignità poi ne snaturano il senso. Non basta commuoversi, bisogna muoversi». Scandisce le parole don Luigi. È un lunedì sera in una Torino piovosa e autunnale. Lo spettro di Lampedusa, nonostante le centinaia di chilometri di distanza, non è lontano. Si aggira per la sala. E torna in altri interventi. Come in quello del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, altro peso massimo seduto al tavolo dell’ assemblea in vista della manifestazione, promossa dai due torinesi insieme a Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare e Maurizio Landini. «Nel Paese delle ipocrisie si invoca sempre una nuova legge. Tutti ripetono in coro “fa schifo” riferendosi a quella attuale. Dalla legge elettorale in giù. Si parlava, per esempio, di una legge sulla corruzione, ne avete vista una nuova? E quella sui partiti? Ora, dopo Lampedusa, si parla di migranti. Secondo voi faranno qualcosa? Quanti morti bisognerà ancora aspettare, non ne bastava uno? Ma alla fine non la cambieranno, perché al governo c’ è qualcuno che l’ ha voluta». Il riferimento è alla Bossi-Fini che don Ciotti chiede a gran voce di scaraventare «fuori dai piedi». A moderare Ciotti e Zagrebelsky, oltre agli interventi di associazioni e personalità torinesi del mondo della sinistra, è toccato non a caso a Federico Bellono, segretario torinese di quella Fiom che è una delle impalcature del 12 ottobre: «Per noi – ha precisato Bellono – è un fatto naturale essere tra i promotori. La Costituzione in questi anni è stata il nostro alleato migliore, vedi la vertenza Fiat a Mirafiori». Per don Ciotti «è il momento di fare scelte, imparare il coraggio. La nostra Costituzione rischia di essere snaturata, noi invece dobbiamo chiedere che venga applicata. Non basta indignarsi, dobbiamo prenderci cura di lei, rendendo degno il lavoro e la democrazia». Poi, cita don Tonino Bello: «Ricordiamoci che delle nostre parole dobbiamo rendere conto agli uomini. Ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto a Dio». Zagrebelsky conclude la serata, con parole forti: «Sta accadendo qualcosa di poco chiaro in Italia, noi andiamo a Roma dicendo che abbiamo capito. Quando sul rapporto Jp Morgan si è letto che la nostra è una Costituzione infida, non si è levata nessuna voce, né dal governo né più in alto. È grave. Il nostro è un Paese ipocrita. Tutti o quasi rendono omaggio alla prima parte della Costituzione, ma spesso quando lo fanno è perché non la si attui e perché la si cambi. Brunetta voleva addirittura modificarne il primo articolo, scrivendo solo “l’ Italia si fonda sulla libertà”, ma senza lavoro la libertà è solo di chi se la può permettere». Altra ipocrisia: «È far credere che possa esistere un risanamento economico senza equità, si parla di Stato come di un’ azienda. E, a differenza di un tempo, il valore prodotto dalle aziende viene investito nella finanza senza creare lavoro. Un furto ai cittadini. La trita formula “ce lo chiedono i mercati” sta facendo morire la politica, perché è la finanza che ci governa. E noi viviamo un congelamento politico, come nelle larghe intese dove nulla si muove. Con tutto rispetto, la conferma di Napolitano alla presidenza della Repubblica è emblematica del blocco. Noi vogliamo recuperare la politica, perché è un diritto dei cittadini, contro il piduismo strisciante che invade l’ Italia. E ai miei amici che hanno contribuito al lavoro preparatorio sulle riforme dico: non siete piduisti come altri, ma rischiate di contribuire a quella cultura».
Articolo di Mauro Ravarino pubblicato su Il Manifesto | 09/10/2013