Tonino Bello un grande vescovo precursore di papa Francesco

don Tonino, il prete che sposò la pace

di Sandra Amurri

in “il Fatto Quotidiano” del 4 aprile 2016

Bello

Figlio del Concilio Vaticano II, precursore di Papa Francesco, di quella “Chiesa del grembiule contro la Chiesa delle Stole” per usare una metafora a lui cara, don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta che non si fece mai chiamare Monsignore, è nato ad Alessano, a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca, lembo estremo del Salento dove i due Mari, Adriatico e Ionio, si separano dando vita a uno spettacolo imperdibile.

Consumato dal cancro: aveva soltanto 58 anni

E qui è stato sepolto a 58 anni, consumato dal cancro. A dare l’ultimo saluto al Vescovo, Presidente di Pax Christi, nel porto di Molfetta, arrivarono 60 mila persone. Malattia che non gli impedì, solo quattro mesi prima, di partecipare alla “marcia dei 500” pacifisti che violarono il divieto di entrare nella Sarajevo assediata. “Il seme della nonviolenza attecchirà?”, si chiede nel diario da Sarajevo. “Sarà possibile cambiare il mondo col gesto semplice dei disarmati quando le istituzioni non si muovono? E il popolo si potrà organizzare per conto suo e collocare spine nel fianco a chi gestisce il potere? ”. E qual è “il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie?”. Domande che irrompono nella drammatica attualità, definita da Papa Francesco: “La terza guerra mondiale a pezzi”.

Qui nella Piazza di Alessano che porta il suo nome c’è la sede della Scuola della Pace e la casa di famiglia trasformata in Fondazione. Leggendo il librone all’ingresso si capisce che, giovani e meno giovani, non arrivano fin qui, da ogni parte d’Italia, spinti da un retorico esercizio della memoria ma dal bisogno di condividere i suoi valori, oggi più che mai, oggi, faro in questa eclissi permanente di umanità.

“Caro Don Tonino, mi sforzo di assomigliarti”, scrive Paola, 18 anni di Napoli, mentre Luca, 50 anni: “Mi manchi”. Mancano gli esempi: quando la parola è credibile perché impastata con la coerenza. “Cari fratelli, solo se avremo servito potremo parlare e saremo creduti…” leitmotiv delle sue omelie.

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A farci da Cicerone, Stefano Bello, nipote del Vescovo di Molfetta che lavora in un centro di riabilitazione psichiatrica, papà di Tonino, un bimbo di 5 anni, ancora ignaro di essere unico erede di tanto nome. Varchiamo l’ingresso del cimitero, sulla destra, un anfiteatro in miniatura, al centro, un’aiuola dove è adagiata una grande pietra con su una piccola scritta: don Tonino Bello, terziario francescano, vescovo di Molfetta- Ruvo-Terlizzi-Giovinazzo.

Nato ad Alessano il 18 marzo 1935, morto a Molfetta il 20 aprile 1993”. Intorno grandi massi dove sono state scolpite alcune delle frasi più significative del Vescovo visionario che scriveva preghiere poetiche sul molo, mentre il sole scompariva all’orizzonte: “Ama la gente, i poveri soprattutto. E Gesù Cristo”…”. In piedi, costruttori di pace”. Quella Pace che campeggia anche sullo striscione appeso a due alberi, per don Tonino non era solo assenza di guerra, ma ricerca costante di verità e giustizia sociale.

Come il ritornello della canzone che, in una sera di pioggia scrosciante, intonavano i bimbi di Kiseljak, e che don Tonino aveva registrato: “Mir, do neba, do moga naroda, kada se probude da rata ne bude…”.

(Pace fino al cielo, fino al mio popolo, affinché al risveglio non trovi la guerra).

Un figlio della guerra nato senza camicia

Nato da una famiglia povera aveva provato il dolore per la perdita degli affetti più cari morti in guerra. La mamma Maria, rimasta sola, sfamava lui e i suoi due fratelli, Marcello e Trifone, con le verdure che raccoglieva nei campi e con quei pochi denari che racimolava ricamando e facendo la domestica. Tonino per studiare fu mandato in seminario a soli 10 anni. Quando, terminati gli studi a Bologna tornò a Tricase come parroco scrisse: “Grazie terra mia, piccola e povera che mi hai fatto nascere povero come te e mi hai dato la ricchezza di capire i poveri e di potermi oggi disporre a servirli”. Divenuto Vescovo, a chiunque bussasse alla porta, credenti e non, offriva “una parola e una frisa”. Con l’avvento dell’equo canone molte famiglie povere vennero sfrattate “Zio le ospitò nell’ Arcivescovado” racconta Stefano. Non perdeva occasione di criticare i politici

“Ero un bambino, ma ricordo benissimo un giorno, dopo tre ore di auto, arrivammo a Molfetta per cenare con lo zio e ripartire l’indomani mattina ma lui ci rispedì a casa, dicendoci con un sorriso che lì non c’era posto e noi un tetto dove dormire l’avevamo”.

Non perdeva occasione per bacchettare i politici di non fare nulla o, di fare poco, contro la povertà. Tant’è che smisero di partecipare al consueto appuntamento per gli auguri natalizi per non “subire” le sue prediche-ramanzine. Ma don Tonino non si arrese, le registrò e inviò loro le cassette. Così come non lasciò soli gli operai delle acciaierie di Giovinazzo, sfilò accanto a loro contro la chiusura dello stabilimento. E dal palco spiegò: “La Chiesa ha il compito di schierarsi con gli ultimi. E in questo momento gli ultimi siete voi. Stare con voi significa anche condividere la vostra protesta contro una politica che non ha salvaguardato i livelli occupazionali attraverso le necessarie riconversioni e ristrutturazioni….”. Ma fece di più, per sostenerli, prelevò undici milioni di lire dal fondo per la costruzione delle chiese. Non aveva alcun timore reverenziale. Da poco eletto Presidente di Pax Christi, non esitò a scrivere una lettera di fuoco a Indro Montanelli, direttore de “Il Giornale”, che in un articolo di fondo aveva ridicolizzato monsignor Bettazzi accusandolo di invitare all’evasione fiscale, anziché all’obiezione fiscale (non pagare tasse finalizzate all’acquisto delle armi).

Polemiche scomode, mal digerite anche all’interno della Chiesa.

A sostenerlo David Maria Turoldo: “Caro don Tonino, mi dicono che sei stato richiamato perché parli troppo contro le armi… dì pubblicamente che sei stato richiamato perché di questo hanno paura. Sono anche vili, come sappiamo: forti con i deboli e deboli coi forti. Per amore dei poveri e della verità; e cioè per amore della Chiesa e della pace, non scoraggiarti, caro fratello vescovo! Di vescovi in cui confidare ce ne sono così pochi!”.

E, forse, nessuno, che nel cuore della notte, alla guida della cinquecento, andava alla stazione a raccogliere i barboni o che scriveva ad un immigrato parole di fratellanza, la grande assente alla tavola della modernità: “Dimmi,fratello marocchino ma sotto quella pelle scura hai un’anima pure tu? Quando rannicchiato nella macchina consumi un pasto veloce, qualche volta versi anche tu lacrime amare nella scodella?… Perdonaci se, pur appartenendo a un popolo che ha sperimentato l’amarezza dell’emigrazione, non abbiamo usato misericordia verso di te. Anzi ripetiamo su di te, con le rivalse di una squallida nemesi storica, le violenze che hanno umiliato e offeso i nostri padri in terra straniera. Perdonaci, se non abbiamo saputo levare coraggiosamente la voce per forzare la mano dei nostri legislatori… Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha il colore della tua pelle. P.S. Se passi da casa mia, fermati”. L’unico riferimento è sempre stato il Vangelo

La chiave del suo operato, come spiega efficacemente il Vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli, è “mettere in pratica il Vangelo sine glossa e sine modo”, cioè senza aggiunte o menomazioni. “Ma anche senza confini e senza misura”. E così la sua utopia resiste oltre la morte e vive nelle viscere della terra oltraggiata e nel sangue dolente degli ultimi.