un giovane prete racconta la brutta avventura vissuta da bambino vittima di pedofilia

«smettiamola, smettetela di idolatrare il prete»

di un giovane prete

in “La Croix” del 7 giugno 2016

prete

‘La Croix’ pubblica la testimonianza esclusiva e anonima di un giovane religioso francese che invita i laici ad uscire da un “rapporto infantile” coi preti, che favorisce il clima di impunità nel quale certi hanno potuto commettere abusi

“Non sta succedendo, non lo sta facendo, non è possibile”. Questo urlava interiormente l’adolescente che ero quando il cappellano del mio liceo faceva ciò che anni di occultamento mi hanno a lungo impedito di nominare e di dire. “Non è possibile”. L’ho pensato talmente forte che ci ho creduto. Solo il corpo ha registrato il fatto, e lo spirito si è trovato umiliato quando il ricordo è tornato a galla, come uno choc. Avevo evidentemente ben introiettato quello schema secondo il quale quelle cose non possono succedere. Non da parte di un prete. Non da parte di colui che mi seguiva e che aveva la mia fiducia. Non in quell’istituto prestigioso dove lo incontravo tutti i giorni. Non durante la confessione. Non all’inizio del XXI secolo. “Non è possibile”. Grazie a quello che sta succedendo in questo periodo, quella negazione sembra svanire nelle diocesi: il vescovo che mi ha ricevuto recentemente non ha minimizzato i fatti e si assumerà, spero, le sue responsabilità rispetto a quel prete. Lo sguardo della nostra società si focalizza in questi ultimi tempi sulle vittime, il grido delle quali, soffocato, chiedeva da troppo tempo di essere ascoltato. “È successo”, per l’istituzione, scossa quando comincia ad ammettere, a bassa voce, che “è possibile”. Ma in questo quadro, manca il resto del gregge. “Non è possibile”. Battezzati, genitori, catechisti, laici impegnati o no, non lo abbiamo forse anche noi creduto impossibile? Non ci siamo messi anche noi dei paraocchi? Involontariamente, certo, semplicemente mantenendo in noi e attorno a noi, in particolare tra i giovani, un’immagine del prete che non è corretta. Rileggendo la mia storia, mi accorgo quanto io fossi, da adolescente, legato ad una rappresentazione del prete come sant’uomo, perché uomo di Dio: colui che quindi non può mai essere nell’errore, in nulla di ciò che dice o fa. Rappresentazione ereditata dal mio ambiente, certo, ma che mi sembra molto diffusa. Oggi sono prete: questo può stupire. Quello che ho passato non mi ha impedito di andare avanti, di discernere, anche se è stato proprio nel momento delle scelte decisive che il velo del diniego si è strappato: il mio aggressore era anche la persona che mi seguiva, che mi ha aiutato nel discernimento, e che in questo senso mi ha anche “fatto del bene”. Per me è stato complicato, ad un certo momento, districare, nel mio cuore, il mio risentimento contro di lui dai benefici che gli devo. Ma “Dio è più grande del mio cuore”, e non ho mai dubitato della realtà di una chiamata sentita molto prima, di un desiderio che è cresciuto e si è radicato indipendentemente da quei fatti, con cui non mi identifico anche se fanno parte della mia storia, e mi rendono attento a qualsiasi forma di influenza all’interno della Chiesa. A questo proposito, non è anodino che io abbia scelto la vita consacrata, che dà al presbiterato un quadro comunitario: sono fratello prima di essere padre e credo fermamente al “sacramento del fratello”, quello stare insieme nell’umanità in cammino verso Dio. Come “giovane prete”, scopro oggi le gioie del ministero. È l’occasione di veder cambiare, dalla mia ordinazione, lo sguardo che mi viene rivolto. In certi contesti si manifesta deferenza nei miei confronti, una sorta di rispetto legato al mio stato più che alla mia persona. E questo indica talvolta che ci si aspetta da me un ruolo lontano da quello per cui sono stato ordinato prete. Io non sono perfetto o santo perché prete, ma sono chiamato alla santità come tutti. Ed è proprio perché c’è una chiamata generale alla santità che abbiamo bisogno di preti. Smettiamola, smettetela di idolatrare il prete, come un essere fluttuante al di sopra dei mortali e staccato dalle molte vicissitudini dell’esistenza, come l’errore o il dubbio. Bisogna amare i preti,
non idolatrare in loro un’immagine. Il clericalismo che venera un’immagine del prete più che amare i preti non tocca solo gli ambienti classici, impregna profondamente le nostre mentalità. Aggiungerei quindi questo: l’ordinazione non fa di me il manager ideale, essere prete non mi rende indispensabile a tutte le riunioni parrocchiali, perché il sacerdozio non è qualcosa in virtù della quale avrei una scienza infusa che mi permetterebbe di prendere sempre la decisione giusta e di mettere tutti d’accordo. Questo è un rapporto infantile col prete, e credo che gli scandali che vengono a galla, con tutto il loro disagio, devono rimettere in discussione questo atteggiamento che non è giusto nei rapporti col clero. Dicendo questo, non intendo allontanare lo sguardo dalle colpe di governo dei vescovi, né invitare ad un sospetto generalizzato nei confronti dei preti, ma semplicemente sottolineare che una denuncia del “sistema” non sarebbe completa se coloro che non sono preti non si ponessero le stesse domande. Il problema del silenzio della Chiesa è innanzitutto quello del silenzio delle vittime e quel silenzio viene mantenuto, almeno passivamente, da quelle immagini che rimangono nella mente di tutti e che manteniamo inconsciamente. Deve cambiare qualcosa, collettivamente, perché i mea culpa venuti dall’alto non suonino come ammissioni di impotenza. Il dolore che il popolo di Dio sente ora che le vittime riescono a parlare ci mostra che è necessaria, e che è cominciata, una purificazione delle nostre rappresentazioni. Che ci siano delle pecore nere, o dei lupi nell’ovile, è una cosa. Che le nostre paure e i nostri accecamenti collettivi permettano loro di continuare a imperversare favorendo un clima di silenzio che soffoca il grido, è un’altra cosa. E su quest’ultimo punto, dobbiamo tutti lavorare, affinché si possa dire un giorno, davvero: “Non è possibile”.

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