ventennio leghista e cattolicesimo veneto

anemoni gialli con farfalla

una riflessione responsabile e puntuale e critica su un ventennio di convivenza tra la Lega Nord e il cattolicesimo veneto da parte di un sacerdote di Treviso, don Giorgio Morlin, a partire da questo interrogativo: “perché nel ricco nord-est, erede di una grande tradizione cattolica e di un’efficienza industriale senza rivali nel mondo, continua ad imperversare una deprimente povertà culturale e una colpevole dissipazione del patrimonio etico che i nostri padri ci hanno lasciato?”

 

Fine di una stagione?

Ventennio leghista e cattolicesimo veneto

La debacle politica dello schieramento berlusconiano-leghista nelle ultime consultazioni amministrative, che hanno coinvolto quasi 7 milioni di elettori in 564 comuni italiani, ha registrato un’autentica Caporetto anche a Tre- viso, da circa 20 anni amministrata e diventata indiscusso feudo leghista del sindaco Gian- Carlo Gentilini, assurto nell’immaginario nazionale a macchietta umoristica di sindaco sceriffo. Vorrei porre alcune mie considerazioni a proposito di una stagione che, probabilmente, si è chiusa per sempre e che merita un’analisi di tipo culturale oltre che politico. L’ex sindaco di Treviso, Gentilini, figura dal linguaggio eccentrico e spesso becero, diventa un caso nazionale nell’ottobre 1997 quando to- glie le panchine della stazione ferroviaria per allontanare «negri e perdigiorno», o quando, nel 2004, in un’intervista alla stampa, spara contro gli omosessuali dicendo: «Darò disposizione ai vigili affinché facciano pulizia etnica dei culatoni!», oppure nel 2005 quando attacca gli immigrati presenti in città affermando perento- rio: «Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pum pam con il fucile!». E quando, molto timidamente qualche parroco trevigiano, in nome del vangelo, parla di tolleranza, di accoglienza e di fraternità, il nostro sceriffo punta simboli- camente  il fucile contro «i preti rossi che sono da mandar via a furor di popolo!». A Treviso, durante il ventennio leghista, il linguaggio gentiliniano registra un crescendo misto di folklore truce e di arroganza impunita che incrementa l’immagine popolana e vincente
dello sceriffo,il quale si presenta come paladino della città per difenderla da «comunisti, negri e omosessuali». Un sindaco che, per quanto ri- guarda dichiarazioni ad effetto, fa scuola e moltiplica attorno a sé numerosi proseliti. Come, ad esempio, avviene con il consigliere comunale leghista Bettio il quale, in un’intervista alla stampa del 2004, ha l’impudenza di affermare: «Sarebbe giusto far capire agli immigrati come ci si comporta usando gli stessi metodi nazisti. Per ogni trevigiano a cui recano danno o disturbo, vengono puniti 10 extracomunitari!» (cfr. Repubblica del 4 dicembre 2004). E da ultimo, nell’amarezza della sconfitta all’indomani dei negativi risultati elettorali del giugno 2013, il sindaco, richiamandosi addirittura a Gesù Cristo e al van- gelo, si lascia prendere dalla foga anticomunista di sempre: «Mi sento come un secondo Gesù Cristo che ha parlato nel deserto. Il mio Vangelo non l’hanno capito; la sinistra è come l’Islam che pensa di risolvere i problemi uccidendo e massacrando gli infedeli». Con simili linguaggi e con i molteplici gesti provocatori che conosciamo, in questa lunga stagione si è assistito ad un progressivo e triste dissolvimento di un humus culturale ed etico che, a Treviso, aveva plasmato il tessuto di una convivenza civile e solidale a partire dal dopo- guerra fino ai primissimi anni ’90. Lentamente è andato mutando il dna antropologico della società trevigiana che, nel giro di appena 20 anni, non solo ha fatto una chiara opzione politica per la Lega, arrivando a percentuali bulgare che sfiorano o superano il 50% dei con- sensi ma che sembra anche aver cambiato i suoi valori etico-culturali di riferimento. Cosa e per- ché è accaduto di talmente nefasto nella Marca Trevigiana, conosciuta fin dal medioevo come «la marca gioiosa e amorosa», da diventare nel giro di due decenni «la marca rabbiosa e ranco- rosa»? Cosa e perché è accaduto che la sola parola clandestino, com’era successo per la parola ebreo 60 anni prima, venisse considerata reato e colpisse gli immigrati come una condanna già emessa e pronta ad essere eseguita? Cosa e
perché è accaduto che un territorio, da sempre considerato la sacrestia d’Italia per la sua capillare cultura cattolica e la sua diffusa pratica re ligiosa, entrasse nell’immaginario collettivo italiano come la patria della xenofobia nazionale? E l’ultima ciliegina sulla torta della vergogna padana la possiamo leggere in una pagina Facebook del 13 giugno 2013, dove la militante leghista di Padova, Dolores Calandro, scrive la seguente infamia riferita alla neoministra ita- liana di colore Cécile Kyenge: «Ma non c’è mai nessuno che se la stupri?…». Perché nel ricco Nordest, erede di una grande tradizione cattolica e di un’efficienza industriale senza rivali nel mondo, continua ad imperversare una deprimente povertà cult rale e una colpevole dissipazione del patrimonio etico che i nostri padri ci hanno lasciato? Sono interrogativi quanto mai angoscianti per tutti. Dopo l’attraversamento del lungo tunnel che si spera di lasciare alle spalle, con quest’ultimo passaggio viene oggi posta l’attenzione non solo sull’appartenenza politica ma anche sulla coscienza ecclesiale ed etica di un popolo, quello trevigiano, che si professa cattolico. Una coscienza che, anche a livello di presbiterio diocesano e di comunità parrocchiali nel loro complesso, probabilmente è rimasta latitante proprio nel momento in cui il virus letale entrava subdolamente in circolo nel corpo sociale a corrompere e a dissolvere il tessuto connettivo di una realtà popolare che ha secoli di storia solidale. Nel corso degli anni, senza percepire la gravità del fenomeno degenerativo, è avvenuta al- l’interno di questa realtà una lenta ma micidiale metabolizzazione per cui, ad esempio, si me- scolava banalmente, come niente fosse, la blasfema espressione del cosiddetto dio Po, gene- rata dalla dissacrante e idiota ritualità celtico- leghista, con la fede nel Dio di Gesù Cristo, la sola che qualifica l’identità del cristiano.
don Giorgio Morlin (Treviso)