Ho letto con attenzione la sua confessione autobiografica pubblicata su La Repubblica del 17 Novembre scorso, relativa al suo rapporto con la fede e/o con “Dio”. Metto tra virgolette il termine “Dio” perché ritengo che il termine sia altamente inquinato, talmente polivalente da significare tutto e il contrario di tutto.
Martin Buber racconta che un giorno un anziano signore lo rimproverò duramente per aver usato troppo spesso il termine Dio: “Quale altra parola del linguaggio umano è stata così maltrattata, macchiata e deturpata? Tutto il sangue innocente versato in suo nome le ha tolto il suo splendore. Tutte le ingiustizie che è stata costretta a coprire hanno offuscato la sua chiarezza. Qualche volta sentire nominare l’Altissimo con il nome di Dio mi sembra un’imprecazione”.
Capisco e condivido in pieno tutto ciò che lei scrive nel suo lungo articolo, ma ciononostante approdo a delle conclusioni che sono diverse dalle sue. Quel “dio” che benedice il dolore, che istaura surrettiziamente “l’integralismo della dottrina cattolica”, che nel tumore trova una “manifestazione della sua volontà”, è scomparso ormai da molto tempo dall’orizzonte della mia fede; fede che dal tramonto di questo “dio” è rimasta purificata”, diversamente da lei, la cui fede è stata annullata.
Ricordo che Richard Dawkins, davanti al feretro del suo amico Christopher Hitchens, morto il 15.12.2011, ebbe a dire, orgogliosamente: “Era un coraggioso combattente contro tutti i tiranni, incluso Dio!”. Fossi stato presente, gli avrei battuto le mani.
Vede, dottor Veronesi, ciò che lei, giustamente, rifiuta nella sua razionalità di uomo-di-cultura e nella sua sensibilità di uomo-umano, stranamente poi continua a considerarlo “necessario” alla fede del credente, rifiutandosi di ipotizzare la possibilità di una Fede in un “Dio” diverso. Insomma, negando quel “dio” e negando conseguenzialmente la fede, lei afferma necessario ciò che afferma essere deleterio. Sia chiaro: queste riflessioni non sono finalizzate a “recuperarlo” alla fede. Lontano da me ogni mira annessionistica e conquistatrice: il colonialismo l’ho sempre combattuto, sia nelle sue vesti socio-politiche, sia nelle sue versioni religionistiche! La mia è solo la testimonianza di una diversa “fede” in un “dio diverso (rigorosamente con le lettere minuscole!).
Secondo Salvatore Natoli due sono per l’Occidente i possibili scenari di senso entro cui il dolore è stato compreso e giustificato: quello greco della tragedia e quello cristiano della redenzione. Là dove redenzione non significa affrancamento, ma capacità, che viene dall’amore, di starci dentro a testa alta… Per un cristiano adulto, Dio non può ridursi ad essere un “ottativo del cuore”, come amava criticare Feuerbach. Il Dio cristiano non è nemmeno il divino amato, pensato e glorificato nella sfera del desiderabile, la cui illusorietà, prima che dai maestri del sospetto della modernità (Feuerbach, Marx, Nietzsche e Freud), è stata denunciata e smascherata dalla rivelazione biblica che pensa Dio non come risposta al bisogno umano ma come sua rottura e instaurazione di un al di là del bisogno, che è bontà e santità” (Carmine Di Sante, Il forestiero nella Bibbia).
Il “Dio” di Gesù Cristo non è il dio della risposte alle domande dell’uomo, ma il “Dio” delle domande che interpella la coscienza dell’uomo e la sua responsabilità. È il Dio che chiede ad Adamo: “Dove sei?”, “Cosa hai fatto?”; ed è il Dio che chiede a Caino: “Dov’è tuo fratello?”. Il cristiano, non conosce una strada che aggiri il dolore: conosce piuttosto una strada, insieme con Dio, che lo attraversa (Cfr. Ernst Schuchardt). “Il cristianesimo non è un metodo per evitare il dolore, ma per attraversarlo e assumerlo”, secondo le parole di Arturo Paoli (Le Beatitudini).
Quando il nome di Dio viene usato come prefisso nei movimenti politici (“teo-con” o “teo-dem”) o nelle morali di comodo (“le radici cristiane”), allora è in atto un’azione di rapina e di usurpazione. Ciò, comunque, non mi autorizza a desertificare il tutto, tagliando alla radice la domanda “scomoda” che noi credenti ci portiamo dentro e che, per onestà, non possiamo mettere a tacere eliminando l’Interlocutore: il Dio della domanda e non l’idolo della risposte.
Veronesi e il male che fa perdere la fede in Dio
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 19 novembre 2014
Umberto Veronesi ha spiegato perché non crede in Dio: la perdita della fede a causa della presenza del male di cui ha parlato su questo giornale è un’esperienza comune a molti, descritta in numerose opere filosofiche e letterarie del passato e sorgente di perenne inquietudine per i cristiani. Si tratta infatti di un’esperienza peculiare del mondo occidentale formato dal cristianesimo, perché nei termini raccontati da Veronesi essa non potrebbe avvenire né nell’islam, né nell’induismo e in nessun’altra tradizione religiosa. Per negare Dio tale ateismo si nutre dell’argomento del bene, nel senso che la presenza del male nel mondo è per esso in aperto contrasto con un Dio la cui essenza è pensata come interamente buona, come amore, oltre che come onnipotenza. Se Dio è del tutto buono e ci ama, e se è al contempo onnipotente, il male nel mondo non dovrebbe esistere; ma visto che il male esiste, a non esistere è il Dio buono e onnipotente di cui parla il cristianesimo: ecco la conclusione di Veronesi e di molti occidentali prima di lui. Invece per le prospettive nelle quali Dio, oltre a essere bene, è anche capacità di male, la presenza del male non contraddice in alcun modo la sua esistenza: è semmai solo una delle molteplici manifestazioni di una somma e imperscrutabile onnipotenza a cui occorre conformarsi. Non è quindi un caso che l’ateismo come fenomeno di massa sia sorto in occidente e non altrove. Scriveva Simone Weil, una delle più acute intelligenze mistiche del nostro tempo, alla fine del ‘42: “Sento una lacerazione, sia nell’intelligenza che al centro del cuore, che si va aggravando senza sosta a causa dell’incapacità di pensare insieme, nella verità, la sventura degli uomini, la perfezione di Dio e il legame tra l’una e l’altra cosa”. Questa è la vera e propria aporia di cui soffre il cristianesimo. Il che, peraltro, non dimostra che il cristianesimo sia falso, perché a essere aporetica e contraddittoria è l’esistenza stessa, così che ogni credo religioso o filosofico che attesta la contraddizione serve la vita, mentre quei sistemi che perseguono in primo luogo la coerenza logica sono solo dottrine e ideologie artificiose. Ha scritto il giovane Hegel: “Contradictio est regula veri, non contradictio falsi”, la contraddizione è la regola del vero, la non contraddizione del falso. Il punto è che vi sono due dati di fatto, entrambi veri, ma inconciliabili allo stato attuale della mente umana (un po’ come la teoria della relatività e la meccanica quantistica, entrambe sperimentate innumerevoli volte, ma inconciliabili teoreticamente l’una con l’altra): l’esistenza effettiva del male, sia fisico sia morale; e l’esistenza effettiva del bene, sia fisico sia morale. Si tratta di pensare insieme i due dati, non uno solo di essi. Era quanto faceva Boezio nella sua cella di Pavia prima che Teodorico lo facesse giustiziare: “Se c’è Dio, da dove vengono i mali? E da dove vengono i mali, se Dio non c’è?” ( Consolazione della filosofia I, 4). Se Dio c’è ed è quell’amore onnipotente di cui parla il cristianesimo, perché, citando Veronesi, “un bambino viene invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno?”. Ma se Dio non c’è, da dove vengono le mani del medico che lo curano, la scienza che guida la sua mente e la passione morale che lo porta a operare? Qualcuno potrebbe rispondere dall’uomo e dalla sua ragione e direbbe bene, ma non sarebbe un argomento conclusivo, perché rimane da spiegare da dove vengono l’uomo e la sua ragione. Se consideriamo il punto di partenza del percorso cosmico 13,82 miliardi di anni fa, e il punto cui oggi siamo arrivati in termini di accumulo di organizzazione e complessità, è ben difficile attribuire tutto a un mero susseguirsi di casualità fortunate, tanto enormi sono le probabilità contrarie al darsi della vita e dell’intelligenza nel cosmo: tale attribuzione richiede un investimento di energia mentale almeno pari a quello che ipotizza Dio. La realtà è che di fronte al dato della vita (che è: cancro + mani che lo curano, caos + logos) appaiono insostenibili entrambi i dogmatismi: quello di chi nega ogni forma di logica al governo del mondo e quello di chi vede tale logica in ogni evento, come fa l’attuale Catechismo cattolico dicendo che “Dio permette che ci siano i mali per trarre da essi un bene più grande” (art. 412), presentando un sofisma dal punto di vista teoretico e un’indegnità dal punto di vista morale. La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male esclude che la risposta possa essere Dio, nel senso che Dio voglia direttamente o permetta indirettamente i singoli eventi negativi; esclude che possa essere l’uomo in quanto autore del cosiddetto peccato originale, perché l’uomo è la prima vittima dell’indeterminazione dell’essere che produce il male, non l’autore; ed esclude infine che possa essere una natura del tutto priva di un fine (come vorrebbe il materialismo ateo) perché la natura, oltre al cancro, produce anche la mente e le mani che tendono al bene. La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male è la medesima che sa rispondere all’origine del bene, cioè quella che rimanda all’impasto originario di logos + caos che costituisce il mondo nella sua concreta effettualità e che impone un modo nuovo di pensare Dio. In base a esso occorre superare le secche della dogmatica tradizionale destinate inevitabilmente a condurre molti all’ateismo, senza con ciò cadere nel nichilismo che vede la natura solo come forza cieca priva di ogni direzione, e che quindi si ritrova incapace di fondare l’etica della cura alla base della medicina e in genere del vivere sociale