“mi hanno convertito i poveri”
a tu per tu con uno dei missionari più noti d’Italia. Prima in Sudan, poi in Kenya, oggi vive e opera a Napoli. In mezzo la stagione di “Nigrizia”.
“in Africa ho visto che noi portiamo il Vangelo, ma Dio è già lì”
intervista di ‘Credere’ a cura di
«I poveri mi hanno convertito: scrivilo».
Finisce così, con una frase che sa di “testamento spirituale”, l’intervista che padre Alex Zanotelli ha concesso a Credere, nella quale ha rivisitato mezzo secolo di vita missionaria, sempre giocata in prima linea: in Africa (dapprima Sudan,poi Kenya), alla direzione di Nigrizia e,oggi, nel cuore di Napoli. Il comboniano, che contende a padre Piero Gheddo del Pime la palma del più noto missionario italiano, compie 76 anni il prossimo 28 agosto e da pocoha celebrato il cinquantesimo di sacerdozioa Verona, poi nel suo paese natale, Livo, in Trentino.
Padre Alex, perché i poveri ti hanno convertito?
«Perché, come spiega papa Francesco, nella mia esperienza missionaria ho toccato con mano che noi annunciamo il Vangelo, ma Dio è già lì, ci precede sempre. Un episodio che non potrò mai dimenticare mi è accaduto a Korogocho, la baraccopoli di Nairobi dove ho vissuto: andavamo a celebrare l’Eucaristia nelle baracche, con i malati di Aids. Una sera arrivo al capezzale di Florence, una ragazza che la madre aveva avviato alla prostituzione all’età di 11 anni; a 15 aveva contratto l’Aids, a 17 stava morendo. La stanza è tutta buia, accendiamo una candela e mi metto a pregare. Poi le chiedo: “Florence, chi è il volto di Dio per te oggi?”. Lei resta in silenzio, poi il suo viso si illumina in un sorriso: “Sono io il volto di Dio!”, mormora lei, che non era cristiana e non frequentava la Chiesa. Io, sul letto di morte, non riuscirò a fare una preghiera del genere».
Perché ti sei fatto missionario e perché comboniano?
«La mia vocazione nasce da ragazzino in Val di Non. La scelta missionaria è nata all’indomani di un incontro con un comboniano: io ero uno dei peggiori della classe, ma avevo dentro un forte desiderio di donare la vita. Da lì è nato l’amore per Comboni. La mamma, una delle persone più altruiste che abbia mai conosciuto, mi ha appoggiato. Papà, invece, non era molto contento della mia scelta, almeno all’inizio».
Il giorno della tua ordinazione eravate in 56. Nel 2014 i numeri sono completamente diversi. Perché ai giovani italiani pare che l’ideale missionario non interessi più?
«Il crollo delle vocazioni ha varie ragioni.Una delle principali è che il consumismo ha portato a un azzeramento dei valori fondamentali. Lavorando con i giovani, a Napoli, ne ho avuto conferma: un giovane, appena laureato, sta per entrare nei Comboniani, una ragazza nelle Comboniane. Ma per entrambi è stato necessario uscire dalla sbornia del consumismo e misurarsi con le domande importanti sulla vita. C’è poi un altro problema: manca spesso una conoscenza profonda di Gesù. La nostra è rimasta, in molti casi, una religiosità di superficie. Una seria animazione giovanile deve, quindi, proporre cammini di fede autentici. Ma guai se abbandonassimo questo campo solo perché oggi non ci sono vocazioni dall’Europa!».
A novembre si terrà il convegno missionario nazionale a Sacrofano. Cosa occorre per ridare slancio alla missione?
«Sono molto preoccupato per il futuro: la spinta missionaria in Italia sta languendo. Ma il Papa, nell’Evangelii gaudium, ci stimola a “uscire”. Come fare? La spinta al cambiamento non viene da ragionamenti o da discussioni teologiche, ma dalla testimonianza concreta di gente che sa rischiare. Abbiamo bisogno di testimoni. I giovani questo chiedono, altrimenti non sono interessati: vogliono vedere scelte contro correntee, quando questo accade, si infiammano. Il problema di fondo della Chiesa italiana è che, come mi ha detto una volta il vescovo Ramazzini del Guatemala, siamo schizofrenici. Ovvero: in chiesa diciamo certe cose, fuori facciamo altro. Basta vedere i nostri comportamenti nell’uso dei beni. Vale anche per gli istituti missionari: è possibile che, con tutte le case mezze vuote che abbiamo in giro per l’Italia, non riusciamo ad accogliere i migranti?».
Citi spesso il gesuita John Haughey: «Noi occidentali leggiamo il Vangelo come se non avessimo soldi e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del Vangelo»…
«L’insegnamento di Gesù sui soldi è di una chiarezza incredibile. Il teologo Chiavacci lo riassumeva in due “comandamenti”: primo, cerca di non arricchirti; secondo: se hai, hai per condividere. Ebbene: oggi bisogna dire chiaramente che giocare con i soldi, sia in Borsa sia nel “gratta e vinci”, è immorale perché si accumula denaro senza lavorare. Inoltre abbiamo l’obbligo morale di sapere dove vanno a finire i nostri soldi, se le banche cui ci appoggiamo usano strumenti immorali, come paradisi fiscali e “derivati”, se finanziano il commercio di armi… Le nostre comunità cristiane purtroppo non applicano questa regola, le congregazioni religiose idem. Dovremmo mettere in crisi questo sistema economico, invece ci siamo dentro fino al collo».
Il Papa invita i cristiani ad andare in periferia. Ti sembra che la Chiesa stia raccogliendo questa sfida?
«Sono molto grato al Papa per i suoi messaggi e, su tutti, per il richiamo alla Chiesa povera per i poveri: l’impressione è che ci siano, però, resistenze. Vale anche per congregazioni e ordini religiosi e per noi missionari. Penso a certi conventi, che ancora accolgono solo poche persone, rinchiuse nelle loro mura. Cosa ci vuole a chiudere e spostarsi in zone degradate? Anche nel Nord del mondo ci sono dei Sud e molte occasioni per testimoniare una “Chiesa in uscita”».
Dal 2001 tu hai scelto di stare a Napoli, nel quartiere Sanità. Cosa dici di questa esperienza?
«È più difficile vivere a Napoli che a Korogocho. Qui ognuno cerca di risolvere i problemi da solo, manca la solidarietà che ho respirato in Africa. Per questo, stiamo cercando di creare reti, di mettere insieme la gente su obiettivi comuni, l’acqua, i rifiuti… Ma non è facile».
L’ultimo tuo libro, Il Dio che si svuota (Emi), è un commento alla lettera ai Filippesi. Perché questa scelta?
«Sto rileggendo Paolo in una nuova prospettiva, aiutato da vari biblisti americani. Recuperare lui, ebreo, come fondatore di comunità alternative all’impero romano, lo fa emergere in una luce di straordinaria attualità. Ai Filippesi san Paolo manda un forte richiamo, proprio citando il processo di kènosis, ossia lo “svuotamento” di Dio in Gesù. E, ai cristiani di quel tempo e di sempre, dice: ricordate che un’altra è la vostra cittadinanza».
Sei stato per anni direttore della rivista dei comboniani Nigrizia: una battuta sulla stampa missionaria, che non attraversa un momento facile.
«Non ho ricette particolari, se non questa: ritrovare il coraggio della denuncia. Come istituti missionari non siamo legati a nessun potere: dimostriamolo! In caso contrario, camminiamo con i poveri del Sud del mondo, ma di fatto rimaniamo legati al sistema. E poi occorre portare alla luce testimonianze poco conosciute. Penso, ad esempio, a monsignor Christophe Munzihirwa, arcivescovo congolese di Bukavu, ucciso nel 1996; da noi è un nome sconosciuto, ma fuori dall’Europa lo conoscono come il “Romero d’Africa”».