gli ‘zingari’ e i nostri stereotipi
«Così educata, non sembra proprio zingara»
riproduco qui una bella pagina che nei giorni scorsi Sergio Bontempelli ha pubblicato nel suo sito: il racconto, più o meno, di un’ordinaria giornata nella quale percepiamo e respiriamo in abbondanza le precomprensioni e i pregiudizi o stereotipi attraverso i quali ci rapportiamo agli ‘zingari’ che presumiamo di racchiudere tutti entro precisi atti, comportamenti, atteggiamenti, stili di vita e in base a questi identificarli con certezza, valutarli e condannarli:”I rom, quelli veri e in carne ed ossa, non sono come li immaginiamo. Come dice un mio amico sinto, «se vuoi davvero sapere chi siamo, devi conoscerci uno a uno, perché i sinti non sono tutti uguali». E’ una verità semplice, questa. Ma chissà perché, quando si parla di rom, anche le cose banali diventano complicate da vedere e da capire”
Per un attivista che “si occupa di rom” – come si usa dire – il posto più difficile da frequentare è il bar. Perché se tieni una conferenza, o se entri in una scuola a discutere coi ragazzi, hai tempo e modo di articolare un discorso. Provi a decostruire pregiudizi e stereotipi, e i tuoi uditori ti ascoltano in silenzio. Lo vedi che sono scettici, che non credono a quel che dici: ma almeno ti guardano con il rispetto che si deve all’«esperto».
Al bar no. Al bar, davanti a un cappuccino caldo, tutti sono “esperti”, soprattutto dell’argomento “zingari”. «Te lo dico io, non si integrano, vivono di furti e di illegalità». Le tue statistiche e i tuoi studi non contano nulla. «Puoi raccontarmi quel che ti pare, ma io li conosco, l’altro giorno mi sono entrati in casa e hanno rubato l’argenteria di famiglia…». Stop. Fine del ragionamento.
Come si distingue un rom?
Ecco, fuori dal bar il discorso sull’argenteria sarebbe interessante da approfondire. Ti hanno rubato in casa, e tu hai visto il ladruncolo mentre scappava. Era uno “zingaro”, dici: ma come fai a saperlo? Con quale criterio distingui un rom? Lo riconosci dal colore della pelle, dai tratti somatici, dall’aspetto? Impossibile, perché tra i rom ci sono i biondi, i mori e i castani, c’è chi ha la pelle chiara e chi è più scuretto, chi è alto e chi è basso…
Forse hai riconosciuto il “tipico abbigliamento zingaro”. Magari non era un ladro ma una ladra, e aveva la gonna lunga e colorata… Ora, ammesso (e non concesso) che la gonna lunga sia “tipicamente rom”, non ti viene il sospetto che la ragazza in fuga abbia usato un travestimento per sviare i sospetti? E d’altra parte, se la ladra era davvero rom perché è andata a rubare vestita in modo così riconoscibile?
Forse un buon criterio per identificare un rom potrebbe essere la lingua, ma quanti sono in grado di riconoscere una persona che parla romanes?
Al bar, però, obiezioni del genere non contano. Suonano come i sofismi di uno che ha studiato troppo. «Il ladruncolo era uno zingaro, l’ho visto coi miei occhi, cosa vuoi di più?». Stop. Fine del ragionamento.
Al bar non contano i ragionamenti, contano le storie. E allora proviamo a raccontarla, una storia. E’ una storia vera che mi è accaduta in questi giorni. E che mostra come i pregiudizi condizionino non solo le nostre idee, ma anche le percezioni, quel che “vediamo coi nostri occhi”, quel che ci sembra oggettivo e irrefutabile.
Un viaggio da manager
E’ Martedì, e come sempre vado al lavoro di buon mattino. Oggi però è un giorno speciale, devo uscire dall’ufficio un po’ prima perché parto: mi hanno invitato a tenere un ciclo di seminari proprio sull’argomento rom, a Udine. Per arrivare dalla mia Toscana al lontano Friuli devo fare un percorso lungo e accidentato, con tre cambi di treno: dopo il regionale da Montecatini Terme a Firenze, devo prendere l’Alta Velocità per Venezia-Mestre, quindi di nuovo un regionale che mi porta a Udine.
Armato di pazienza, comincio il mio viaggio sul regionale. Salgo, prendo posto, mi siedo e accendo il computer: devo finire le slide che mi servono per far lezione, e comincio a lavorare. Sono ben vestito (meglio del solito, almeno…), consulto libri e documenti, armeggio col mouse, prendo qualche appunto sull’Ipad e di tanto in tanto rispondo al cellulare: devo avere l’aria di uno quegli odiosissimi manager che lavorano ovunque, sul treno come in ufficio, alla fermata dell’autobus come sulla panchina al parco… Intorno a me noto occhi curiosi che mi scrutano, con un senso di rispetto misto a invidia.
La “zingara” del treno regionale…
Mentre lavoro vedo passare Maria, una ragazza rom romena che conosco di vista: di solito chiede l’elemosina sul treno, e io le do sempre qualcosa. Si avvicina e mi tende la mano per chiedere qualche spicciolo: poi mi riconosce, trasale e sorride. Col mio rumeno un po’ maccheronico le chiedo come sta. Mi dice che nelle ultime settimane la vita è più dura del solito, la questua non “rende” bene e lei non ha i soldi per mangiare.
Può darsi che sia vero, può darsi che sia un modo per strappare qualche spicciolo in più: per me non ha importanza, e le allungo una moneta da due euro. Lei sorride di nuovo, mi ringrazia e si siede un attimo. Continuiamo a parlare del più e del meno, le chiedo se ha programmi per Natale e lei mi dice che, finalmente, passerà le vacanze a casa, in Romania. «Fa freddo laggiù», spiega, «adesso c’è la neve». Poi si alza, saluta e se ne va.
La scenetta non è passata inosservata. I viaggiatori mi guardano attoniti. Prima sembravo un manager indaffarato, ma i manager di solito non parlano con gli zingari. Già, perché Maria sembra proprio una “zingara”: ha l’aspetto trasandato, chiede l’elemosina e porta una gonna lunga e colorata…
… e la strana ragazza sull’Eurostar
Arrivato a Firenze, corro al binario e salgo sul treno Alta Velocità, quello per Venezia. L’ambiente è decisamente diverso: qui non ci sono i pendolari, ma – appunto – i manager indaffarati. Rispondono al telefono e li senti parlare di bilanci, di contratti, di accordi commerciali da perfezionare, di meeting da organizzare. La voce dell’altoparlante invita a gustare le prelibatezze del bar al centro del treno: fuori dal finestrino, le gallerie si alternano ai paesaggi delle montagne toscane. Cullato dal treno, mi addormento.
Dopo poco più di mezzora siamo a Bologna. Sale una ragazza giovanissima e si siede accanto a me. E’ vestita elegante ed è truccata con molta cura. Saluta il fidanzato dal finestrino e gli manda un bacio romantico, uno di quelli “soffiati” sul palmo della mano… Poi, quando il treno riparte, si mette a sfogliare una rivista.
Nel bel mezzo del viaggio le squilla il cellulare. Si mette a conversare al telefono e sento che non è italiana: parla una lingua che non riesco a identificare. Frequentando gli immigrati, mi sono abituato a sentirne tante, di lingue: ovviamente non le capisco, ma sono in grado di distinguere un albanese da uno slavo, un rumeno da un ucraino, un russo da un georgiano. Ma la ragazza proprio no, non capisco da dove viene. La ascolto con attenzione e mi pare di sentire qualche parola in romanes. Però no, non può essere rom: non ne ha l’aspetto, non parla con la tipica gestualità “alla zingara”, non è vestita da rom… E poi, si è mai vista una rom sul treno ad Alta Velocità?
La romnì «invisibile»
Mentre cerco di identificare la provenienza della ragazza, mi squilla il telefono. E’ un amico senegalese che ha problemi con il permesso di soggiorno. Gli fornisco qualche consiglio, poi gli dico di passare al mio ufficio: l’argomento è delicato, ed è bene capire la situazione controllando di persona documenti e carte.
Quando riaggancio mi accorgo che la ragazza mi sta guardando. «Ma tu sei un avvocato?», mi chiede. Le rispondo che no, non sono avvocato, lavoro per i Comuni e mi occupo di permessi di soggiorno. Mi spiega che suo padre ha problemi con i documenti, e mi chiede consigli. Scopro così che la ragazza è macedone. Ma qualcosa non torna.
Conosco bene la lingua macedone. Voglio dire, non la parlo e non la capisco, ma la riconosco quando la sento. E la ragazza no, proprio non parlava macedone. Nei Balcani ci sono consistenti minoranze albanesi, ma lei non parlava neanche albanese. Non riesco a vincere la curiosità, e mi faccio avanti: «ma che lingua era quella al telefono?». La ragazza trasale, ha un momento di imbarazzo e farfuglia: «no, non era macedone… la mia lingua è…». Si ferma un attimo. Si vede che non sa proprio come dirmelo. «Ecco, in casa parliamo una specie di… di lingua sinta…».
«Una specie di lingua sinta» significa che la ragazza parla romanes. E’ una romnì macedone («romnì», per chi non lo sapesse, è il femminile di «rom»). Provo a sciogliere il suo imbarazzo, le dico che ho molti amici rom che vengono proprio dalla Macedonia. Ci mettiamo a parlare, e scopro che la ragazza abita a Bologna, ma il fidanzato è un sinto di Pisa, la mia città. Facciamo amicizia e alla fine ci scambiamo i numeri di telefono. «Se mi sposo a Pisa ti chiamo e vieni alla mia festa di matrimonio».
La morale della favola
La “morale” di questa piccola storiella ci riporta alle conversazioni da bar di cui si parlava prima. Crediamo tutti di sapere chi sono gli “zingari”, e come sono fatti. Chiunque è (crede di essere) in grado di riconoscere un rom, o una romnì. E su questa percezione intuitiva costruiamo i nostri discorsi: «tutti i nomadi chiedono l’elemosina, nessuno lavora» (come se l’elemosina fosse una cosa orribile, e non un lavoro come gli altri: ma questo è un altro discorso, e ci porterebbe lontano…). «Io li ho visti, rubavano i portafogli ai passanti». «Ero sull’autobus e c’era una nomade che non aveva pagato il biglietto: non ce n’è una che rispetti le regole…». E gli esempi potrebbero continuare.
Non pensiamo mai che quel che vediamo è anch’esso frutto di pregiudizi. Non ci viene in mente che il nostro educato vicino di casa, che incontriamo sull’ascensore al mattino, potrebbe essere rom. Sul treno, non ho pensato che la mia “compagna di viaggio”, elegante e ben vestita, era una romnì macedone.
I rom, quelli veri e in carne ed ossa, non sono come li immaginiamo. Come dice un mio amico sinto, «se vuoi davvero sapere chi siamo, devi conoscerci uno a uno, perché i sinti non sono tutti uguali». E’ una verità semplice, questa. Ma chissà perché, quando si parla di rom, anche le cose banali diventano complicate da vedere e da capire.
Sergio Bontempelli